pp.104 Italia, 1950. Nei bar non si parlava d’altro che del processo Rina Fort, la commessa accusata di aver ucciso la moglie e i tre figli del suo amante. Pavese si era suicidato in un albergo di Torino, per amore. In un angolo della penisola italiana, all’estremo Sud della Puglia, c’è un’altra penisola da cui molti partono in cerca di fortuna. Si tratta di una terra di frontiera "dove gli uomini e gli spiriti parlano ancora la stessa lingua", dominata da un sole maestoso e impassibile. Una corte di spostati resta a vivere nei paesi senza tempo, poveri e superstiziosi, dove si produce il vino per gli industriali del Nord e dove si spingono, attraverso interminabili viaggi, solo i sensali. Lecce è la città dove il tempo scorre in ritardo e una vecchia stracciona, che si crede un’erede dei Savoia, rappresenta tutti quelli che"vivevano sapendo: il vento si sarebbe alzato cancellando per prima cosa le loro tracce". In questo luogo senza importanza, decide di trasferirsi una giovane donna, Teresa Manara, nata e cresciuta a Imola " dove ha visto trascolorare le atmosfere degli anni ’20 e ’30 attraverso le eleganti vetrine dell’antica bottega di tessuti delle zie zitelle e dove ha subìto, insieme alla sua famiglia, l’occupazione tedesca. Teresa è la moglie di un venditore di vino sfuso convinto che "un vino, al pari di un uomo, è la sua storia", ma è soprattutto un’instancabile osservatrice, nonché la protagonista delle due storie d’amore che scorrono parallele in queste pagine: quella che la spinge a seguire un uomo fino alla fine del mondo e quella per la terra che diventerà la sua seconda casa. Grazie alla sottile lama del suo sguardo, Luisa Ruggio ci racconta un mondo visto attraverso lo specchio delle barberie, quello delle vite marginali, degli inutili, ma soprattutto quello di una natura che concede una misura di sé, un fragile miracolo spremuto con fatica dagli uomini che decidono di restare....