pp.100 brossura
“ Ma avevo un’altra promessa da mantenere. Sono andato nella casa della vecchia mamma Arciuli. Era sola e stava sfogliando un album di fotografie di altri tempi. Le ho dato sette baci sulla fronte. Uno per me, gli altri per i figli lontani. Sette. Come le stelle dell’Orsa, che stasera sfavillavano vivissime nel pezzo di cielo dove, per venti notti di seguito, ho visto scintillare la Croce del Sud.”
A don Tonino Bello dovette piacere molto il titolo che scelse per il suo diario australiano. Sotto la Croce del Sud (croce o Croce? Sud o sud?) evoca l'altro emisfero, l'altra metà del mondo, il sud appunto, quell'entità non solo geografica cui l'autore sa di appartenere in radice e in sentimento. Ma evoca anche la croce sotto la quale l'autore si è collocato, senza poter mai dimenticarsene, alta nel cielo e pesante sulle spalle, della quotidiana missione.
Il "genere letterario" cui questo libro appartiene è il "rapporto pastorale" su cui i lettori laici sono, come me, molto ignoranti. Ma è certo che dentro il "genere" don Tonino si è preso le sue libertà, come in tutto, seguendo il suo spirito (la sua ispirazione) pure nel fondamentale rispetto del canone.
Egli passa dal particolare al generale, dal personale al politico, dallo humour al pathos, dal comunicativo spicciolo al messaggio radicale, dall'accettazione dell'esistente alla sua messa in discussione, dal banale al profondo, dalla canzonetta alla poesia, da De Amicis a Teilhard de Chardin (o, nella stessa frase, da Eusebio di Cesarea a Mario Riva: "domenica è sempre domenica"), per finire alla commedia di costume anche statunitense, se facendo venire in mente ai lettori più vecchi, film giustamente dimenticati dai più, prodotti dalla retorica cattolica hollywoodiana di un tempo su preti e monache canterini alle prese con comunità facili facili, e tutt'al più con bonari contraddittori protestanti.
Si sente tutta l'acquisita maestria del comunicatore, in ciò che don Tonino racconta del suo viaggio e del suo modo di porsi tra gli altri, portatore, in quanto vescovo, di consolazione ma anche di un esigente messaggio. Si sentono, diciamo, tutte le "astuzie del mestiere", insieme alla vocazione e alla spinta a "vocare" altri, a essere in ogni maniera testimone di un qui, ora, e di un altro. Questo "altro" è anche un altrove molto definito geograficamente: sono i molfettesi, i giovinazzesi, i siciliani di Capo d'Orlando, cercati e trovati nelle diocesi e parrocchie che la sua visita pastorale deve toccare; sono gli scali per arrivarci, i luoghi concreti come case, ospedali, e fabbriche, sale municipali e sale del ritrovo comunitario e festoso, barche e aerei.
È un emisfero altro, sul quale l'autore non sembra però avere idee troppo precise, da prete cattolico romano, anche un po' "romanocentrico". Per esempio, nei confronti degli aborigeni australiani, che proprio non lo interessano, fatta eccezione per il loro aspetto bizzarro (i tatuaggi!), o nei confronti delle religioni asiatiche (i superficiali accenni Buddha delle visite museali). Insomma, non dimentichiamolo, don Tonino Bello è salentino, frutto della sua cultura e del suo tempo.
Se di questa cultura egli è riuscito a esprimere il meglio, è stato, forse, anche per quella salvezza e condanna, sintetizzata nel rimprovero aspro verso gli italiani di un loro ospite di Perth: "il gusto delle cose inessenziali". Che può essere, come sappiamo, tanto una forma di superficialità che una forma di superiore saggezza...
Proprio quest'altalena e questa compresenza di molto serio e di meno serio, dà però il suo pregio e "sapere" a questo diario e lo rende per molti aspetti prezioso, come documento di una situazione e condizione, di un modo di porsi. Come se così si può dire, oggetto letterario.
Non è un caso se don Tonino cita più volte De Amicis e più volte Teilhard, due poli significativi della sua cultura. La paura di essere troppo sentimentali, che viene di solito collegata alla resistenza che si ha nei confronti del "libro Cuore" non dovrebbe farci dimenticare che De Amicis è stato anche un socialista e non solo un sabaudo, e che se dal Cuore si espungessero coraggiosamente le abominevoli lettere del padre al figlio, il libro sarebbe tuttora godibile e a suo modo utile, per esempio, per la sua attenzione agli umili, ai deboli, ai malati, agli "altri".
Non dimentichiamo poi che il Cuore, con la piccola epopea geografico-sentimentale di Dagli Appennini alle Ande, è uno dei pochissimi esempi di letteratura italiana sull'emigrazione degli anni tra Otto e Novecento, quelli del grande esodo dei più poveri tra i contadini d'Europa verso le Americhe, verso Altrove misteriosi dove si spera in una onorata e degna sopravvivenza per sé e per i cari.
In tempi di "Fratelli d'Italia" da nazionale di calcio berlusconista e non di quel "Fraccelli d'Iccialia" che don Tonino sente cantare dai nostri australiani (presi dalla nostalgia di una patria ingrata che è stata perfino feroce nel suo disinteresse per loro), guai a confondere il nazionalismo delle corrotte gare sportive con la memoria di una patria perduta che è poi il luogo piccolo e definito degli avi scomparsi e dell'infanzia lontana.
Don Tonino, nel suo viaggio, lo intende e lo esemplifica in sé: solo chi ha avuto un paese vero alle spalle può essere internazionalista e "globale", nella sana dialettica di minimo e di massimo, di appartenenza al semplice e insieme al complesso, a un municipio e a un pianeta...
Don Tonino arriva a identificare nel dialetto, nei canti religiosi (talvolta abbandonati dalla Chiesa odierna) e nei sapori e odori della cucina le abitudini basilari, il segno della passata appartenenza, in un concreto dei corpi e in un astratto delle anime, mediati da una lingua dalla comunicazione sociale tra simili, tra "paesani".
Non ho conosciuto don Tonino, non ho avuto questa fortuna, ma ho conosciuto molti suoi amici e vicini e ho avvertito a distanza il fascino della sua personalità, delle sue convinzioni, della sua immediatezza senza ricercatezze, del suo modo di operare e predicare dentro una specifica comunità e dentro la più vasta comunità dei credenti. O dei "persuasi" (per usare il termine che Capitini proponeva di sostituire a quello più "militare" di "militanti") che comprende un'altra specie di credenti dentro la convinzione delle comunioni e comunicazioni più vaste, sociali, naturali, religiose. La persuasione di don Tonino ha un timbro particolare, che non è solo quello della sua vocazione e missione sacerdotale, ma sembra andare oltre: è una persuasione che nasce dalla conoscenza dei limiti e dei valori dell'umano, della fragilità e della forza dell'animale sociale per eccellenza, ma anche dalla fiducia in quel "desiderio irresistibile e santificante", che, secondo Teilhard "ci fa gridare tutti, dall'empio al fedele: Signore, fa che noi siamo uno!".
Solo così si può intendere appieno, mi pare, la vitalità esemplare di questo vescovo, e solo così egli, nelle sue pagine, supera con la freschezza di un approccio diretto ed appassionato, con la curiosità e con l'amore per il prossimo, che non è solo il suo "gregge", ogni tentazione retorica, nonostante sia molto sentito da lui il rispetto per un'impresa che, per destinazione, è oltre che di "rapporto pastorale", anche di corrispondenza giornalistica, con tutti gli obblighi che ne derivano di comunicazione per i lettori particolari, interessati forse più al racconto che al messaggio.
E infatti la "morale", che pur trapela da ogni pagina del diario è riservata nella sua pienezza e decisione, nella sua durezza senza compiacenze e tatticismi di nessun tipo, ai veri e propri messaggi, posti in appendice, lasciati ai molfettesi e pugliesi di Adelaide, di Porth-Pirie, di Sydney, di Freemantle.
Qui il pastore accetta con orgoglio il compito che gli spetta, e si muove ancora una volta all'interno di un "genere" e di un canone con una libertà e radicalità che sono solo sue.
"Cercate caparbiamente l'unione tra voi", egli dice. E: "non lasciatevi imprigionare da ciò che si tocca e ciò che si vede", e cioè dalla malattia del materialismo che sta distruggendo l'Europa e non solo l'Europa. E: "non svendete i vostri valori". Poiché "il Vangelo vale più del dollaro, l'amore vale più della macchina, il dialogo vale più del tornaconto, la poesia della vita vale più dell'interesse. La cultura vale più del calcolo. L'arte vale più della smania produttiva. La religione vale più del mercato. La comunione con gli altri vale più delle cinture di sicurezza in cui l'egoismo fa inaridire l'esistenza. Una bella famiglia unita vale più di una bella casa di mattoni. La parola di Gesù Cristo vale infinitamente di più del grano dei vostri silos, dei tesori delle vostre miniere, di tutte le aragoste del vostro splendido mare".
Compito del buon pastore è anche predicare il giusto e il vero. Compito del buon pastore è pensare al gregge pur sapendo la priorità al suo interno da attribuire agli umili e ai piccoli.
Qualche tempo dopo, il messaggio di don Tonino si sarebbe fatto ancora più radicale di fronte alle guerre di là dall'Adriatico, a due passi da casa, e alle loro carneficine fratricide. Don Tonino, avrebbe pensato non più secondo il tempo della pace e le sue possibilità, ma secondo il tempo della guerra, tenendo in debito conto la pesantezza e i ricatti della guerra e l'obbligo di assumersi le proprie responsabilità secondo una persuasione confrontata con le scelte più gravi.
Per ora, l'Australia è una vacanza e non solo un compito, una festa e non solo un lavoro.
Nel tempo della pace e della festa, in quella "domenica" che don Tonino sembra sentire istintivamente nervi e pelle, come il giorno sacro alla concordia e alla gioia, ciò che si predica è in definitiva tutto ciò che può tener lontana la discordia, tutto ciò che è utile a combatterla.
Ma non lasceremo don Tonino ai suoi messaggi più austeri e tradiremmo lo spirito di quest'aureo diario se non scegliessimo tra i suoi cento aneddoti quello più "in spirito", credo, con il suo carattere. È l'episodio del tutto secondario delle gazzose, a dimostrazione di una pietas che travalica l'umano e il naturale, e di una felice punta di bizzarria.
Nell'aeroporto di Bombay, al primo scalo nell'altra parte del mondo, "sul bancone di un bar quattro gazzose sonnolente; e dietro due anziani che si ricomponevano nell'abituale malinconia dopo ogni accattivante sorriso andato a vuoto. Siamo a inizio di viaggio, il 4 di ottobre.
A fine viaggio, il 26, prima del rientro a Roma e poi a Molfetta, ecco ancora don Tonino nello stesso bar dello stesso aeroporto: "lo stesso sonnolento scenario dell'andata. Sul rozzo bancone del bar, quattro bottiglie di gazzosa, forse le stesse di ventidue giorni prima. Non avevo sete, ma quelle bottiglie mi facevano tanta tenerezza che le ho comprate tutte e quattro. Poi, di nuovo all'inseguimento del sole".
Goffredo Fofi